Stranieri su un molo, Tash Aw

Non poteva esserci lettura migliore di Stranieri su un molo per mettere la parola fine a questo 2022 di libri, anno in cui ho finalmente deciso su quale genere concentrarmi: il memoir. Ormai ho uno scaffale della libreria pieno di titoli che aspettano di essere letti, e da oggi ne fa parte anche il memoir di Tash Aw (1971), autore sino-malese.

Stranieri su un molo (add editore, 2022) racconta che cosa significhi sentirsi persi in una terra straniera, una terra non necessariamente geografica ma fatta di legami, come può essere la famiglia.

Suddiviso in due capitoli, La faccia e Swee Sei o L’eternità, Tash Aw riesce in una manciata di pagine a descrivere contesti storici passati e presenti attraverso la ricostruzione delle vicende dei nonni, stranieri su un molo, che lasciarono la Cina per la Malesia durante gli anni ’20; della nonna, protagonista del secondo capitolo, in cui l’autore utilizza la sua esperienza di vita per raccontare la condizione della donna in Oriente e, infine, l’esperienza di Tash Aw in Occidente.

Il memoir si presenta come un puzzle di identità e di dialetti, di città da geolocalizzare, mantenendo come punto fisso le proprie radici familiari. Interessante il rapporto tra vita e scrittura. Scegliere che cosa tenere e che cosa lasciare del passato; cancellare e correggere come si fa con l’editing di un racconto. Ma, come dice l’autore, “Abbiamo bisogno di conoscere quel disordine per scoprire chi siamo.”

Stranieri su un molo è per te se ti piacciono i libri che raccontano di famiglia, di storie da non dimenticare, di identità multiple che cercano di convivere in una stessa persona, di privilegio e di culture diverse che si incontrano e ci arricchiscono, costringendoci a volte a separarci da chi amiamo.

Perché essere felice quando puoi essere normale: il memoir che ha dato inizio a tutto

A Perché essere felice quando puoi essere normale? di Jeanette Winterson devo un po’ di cose.
Devo la passione per i libri, il rispetto per la mia persona, ma soprattutto la forza di credere in qualcosa di migliore e di diverso.
Ricordo di aver acquistato il libro di Jeanette Winterson dopo una mattinata in cui avrei buttato all’aria qualsiasi progetto. Mentre camminavo in mezzo alla gente ho iniziato a leggere le prime righe, e da subito si è aperto davanti ai miei occhi un mondo di possibilità: una scarica di adrenalina mi ha percorsa da capo a piedi e ho capito che qualcosa poteva ancora essere fatto e che ero ancora in tempo per tutto.

Da quel giorno, quando per un attimo mi dimentico chi sono e perché faccio le cose che faccio, mi ricordo di questo passaggio del libro: “Tutto quello che è al di fuori di te ti può essere sottratto. Solo ciò che è dentro di te è al sicuro.” È una frase che ho appuntato un po’ ovunque, che mi soccorre quando sono in cerca di ispirazione e che mi incoraggia quando ho bisogno di una spinta per buttarmi in qualcosa di nuovo.  
A questo libro devo anche un’altra cosa. Perché essere felice quando puoi essere normale? è stato il titolo che mi ha avvicinata al genere del memoir (che, spoiler, non corrisponde esattamente all’autobiografia!).

Perché essere felice quando puoi essere normale? è la storia di Jeanette Winterson, una donna adottata e cresciuta ad Accrington, una cittadina della provincia di Manchester. Accrington è una città industriale, dipinta con toni grigi, tanta sporcizia e fumo, dove la classe operaia è in forte fermento.
Jeanette è stata adottata per colmare il bisogno di una donna dalla necessità impellente di affermare la propria esistenza; una madre dedita alla Chiesa, che di notte ascolta il Vangelo trasmesso in radio, in attesa dell’Apocalisse. Una depressa istrionica, come la dipinge Jeanette, che repelle il contatto fisico e tiene una pistola carica nel cassetto del comodino.

Del rapporto con la madre, Winterson scrive: “Ho sempre costruito le mie storie in opposizione alle sue. È stato il mio modo per sopravvivere, fin dall’inizio.”  Infatti, il racconto procede proprio così: Jeanette cresce e si conosce nonostante l’ingombrante presenza della madre adottiva. La figura del padre, al contrario, è una figura di contorno. C’è, ma si dimostra perlopiù indifferente nei confronti dell’educazione impartita a Jeanette, mostrandosi in realtà succube della moglie. Dal racconto che ne fa Jeanette capiamo che probabilmente il padre nutre un sincero affetto per la figlia, o quantomeno ci prova, ma la madre non lo ha mai permesso.

In un ambiente così descritto, privo di affetto e di dialogo, Jeanette cresce nella convinzione di non essere accettata, né tantomeno amata. Fin dall’infanzia, la scrittrice però si costruisce un appiglio, la lettura e, in seguito, la scrittura. Jeanette decide di diventare una scrittrice, di splendere nell’universo della letteratura, un mondo fortemente caratterizzato da un’impronta maschile. “Perché a una donna bisogna imporre dei limiti? Perché una scrittrice non deve coltivare l’ambizione? Perché una donna non deve essere ambiziosa?”, dice Winterson.
In una casa in cui ci sono soltanto sei libri, tra cui due copie della Bibbia, Jeanette legge i titoli della biblioteca; lavora, e con i soldi che guadagna compra altrettanti libri che stipa sotto il materasso, lontani dagli occhi della madre, e impara poesie a memoria perché facciano parte di lei.

Scontrandosi quotidianamente con la madre, Jeanette cresce, fino al giorno in cui le dichiara di essere una donna omosessuale e di voler prendere in mano la sua vita, ricevendo in risposta: “Perché essere felice quando puoi essere normale?”, frase che darà poi il titolo al memoir. Jeanette, ormai una ragazza di sedici anni, dopo tale risposta decide di andarsene di casa e, a bordo di una Mini, comincia una nuova vita – la terza in ordine cronologico, se contiamo la fase antecedente all’adozione e gli anni trascorsi con la madre e il padre. Finalmente artefice del proprio destino, Jeanette si dimostra una donna coraggiosa, decisa nel costruirsi un futuro a cui però manca una parte fondamentale, il passato, ma anche un’educazione all’amore.

Perché essere felice quando puoi essere normale? è un memoir in cui si racconta di una lotta alla sopravvivenza, di un’affermazione di sé nonostante gli ostacoli, e di quanto la cultura e i libri siano spesso ancora di salvezza.

Di quanto io sia grata a Tamara Tenenbaum e al suo “La fine dell’amore”

Sono una donna di 28 anni, cresciuta in un ambiente in cui se sei donna devi saper fare le cose di casa, rendere felice il tuo futuro marito (felicità che comporta il mio saper stirare le sue camicie, il mio essere inventiva in cucina nel preparare qualcosa di buono e di diverso ogni giorno), e devi lasciare per prima perché se vieni lasciata spesso (e la voce gira) non ti prende più nessuno.

La mia conoscenza dell’amore e delle relazioni è iniziata quando avevo quattordici anni, e da quel momento non sono mai stata da sola. Non lo dico per alludere alla fila di corteggiatori; lo dico perché, riflettendoci, io decidevo di stare con una persona perché non sapevo stare sola: avevo bisogno di una funzione, di un ruolo, che di solito era di cura.

Poi, fisiologicamente, arrivava la noia, di solito dopo un anno/un anno e mezzo. Ricercavo le prime sensazioni, le farfalle nello stomaco, la voglia di stare insieme ininterrottamente. L’ho capito negli anni che quella fase, la fase dell’innamoramento, finisce e ne subentra un’altra, ovvero la fase dell’amore. E’ in quel momento che si decide di restare, di capire, di sviscerare i sentimenti e i pensieri e di andare avanti. Sempre se, dall’altra parte, c’è la stessa voglia. Insomma, se ne vale la pena.

Oggi ho 28 anni e da più di sei sono impegnata con una persona. Avere 28 anni comporta, nel mio caso, fare i conti con domande impertinenti, pressione sociale, orologio biologico che costantemente mi dice di prendere una decisione perché altrimenti sarà il tempo a decidere per me.

Mi sono resa conto di tante cose in questi sei anni, ma gli ultimi mesi sono stati fondamentali. Hanno segnato un prima e un dopo. Qualcosa è scattato come una scintilla.

L’idea di un matrimonio per me è sempre stata lontana. Non ci ho mai riflettutto attentamente, non l’ho mai desiderato come punto di arrivo e non l’ho mai idealizzato, complici sicuramente l’idea di famiglia e di matrimonio che ho avuto, ma anche la grande difficoltà che ho nell’accettare un amore e una felicità.

A inizio anno, trascorrendo più tempo con questa persona, mi sentivo bene nel ruolo di donna di casa e di moglie. Riuscivo a vedermi sposata e il matrimonio è apparso per la prima volta come un’ipotesi reale: ma sì, facciamolo!

Poi un clic nella testa: perché adesso sì e prima no? Cos’è cambiato? Perché ti vedi realizzata soltanto nel ruolo di moglie? Non è che, forse, ti manca altro che pensi di compensare con un matrimonio che rassicuri tutti (perché almeno ti sei sistemata e esci dal nucleo familiare)? Ti sposi per te o per gli altri? Perché hai la sensazione che il tuo mondo ruoti attorno a lui? Chi sei senza di lui? Se lui un giorno non dovesse esserci più, che cosa hai realizzato di soltanto tuo?

Quando questi pensieri sono apparsi nella mia testa, ho sentito subito un forte senso di colpa perché ero sbagliata: sbagliata ai suoi occhi perché per lui non sarei mai stata abbastanza; sbagliata agli occhi della famiglia perché potrei decidere di non rispettare le tappe imposte. Che donna sei se non vuoi sposarti, se non vuoi figli, se non pensi a lui come il centro del tuo mondo a cui essere riverente sempre?

Mi sentivo sola perché di queste cose è difficile parlarne. Il giudizio è sempre lì, dietro l’angolo, e, sinceramente, non mi va di sentire delegittimati i miei pensieri.

Poi è arrivata lei, Tamara Tenenbaum, con La fine dell’amore. Amare e scopare nel XXI secolo (Fandango Libri, 2022), un libro tra il memoir e il saggio divulgativo che ha come tema la decostruzione dell’amore romantico ma anche della famiglia tradizionale, partendo dalla sua esperienza personale.

Tamara Tenenbaum (1989) è una giornalista argentina, insegnante di Filosofia, cresciuta in una comunità ebraica ortodossa a Buenos Aires, dove ha vissuto fino ai 23 anni. Tenenbaum specifica sin da subito il suo punto di vista, quello di una donna bianca, eterosessuale, figlia di una famiglia monoparentale, appartenente alla classe media urbana argentina.

All’interno di La fine dell’amore, Tenenbaum affronta, capitolo per capitolo, i grandi temi che caratterizzano i legami eterosessuali, le dinamiche di potere, la cultura dello stupro e del consenso, il mito della bellezza, la maternità, la libertà e l’educazione sessuale.

Si parla di relazioni e di amore come impegno, come mercato del desiderio, ma anche come un privilegio perché sì, è un privilegio poter investire nella coppia.

Tenenbaum propone di uscire dalla logica individuale e di adottare un nuovo paradigma, l’amicizia; costruire legami seri ma flessibili; adottare uno sguardo decostruttivo che analizzi il sistema e che tolga il peso della responsabilità individuale.

La fine dell’amore è un libro ricco, completo, arricchente, fondamentale per sentirsi finalmente riconosciute. Per accettare che possiamo essere tante cose e che possiamo sentirci libere di non aderire a nessun ideale, vivendo comunque appieno l’amore .

**Libri citati in La fine dell’amore e che leggerò**

Una donna, di Annie Ernaux

“Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo.”

Immagine di SoloLibri.net

Dal 2016, anno in cui con “Gli anni” ha vinto il Premio Strega Europeo, anche in Italia abbiamo la possibilità di leggere l’opera, perlopiù autobiografica, di Annie Ernaux, scrittrice francese pubblicata da L’Orma Editore.

Come in “Il posto”, testo in cui Ernaux racconta della figura del padre e dove forti erano la tematica dell’emancipazione e del distacco dalla famiglia, in “Una donna” l’autrice affronta il lutto per la perdita della madre, affetta dal morbo di Alzheimer, iniziando a scriverne dopo poche settimane dalla morte.

Una donna, Annie Ernaux, L’Orma Editore 2018

Mia madre è morta lunedì 7 aprile.

Il testo si apre immediatamente con il fatto accaduto: la madre è morta nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove la figlia, Annie, l’aveva portata due anni prima.

Nata nel 1906, quarta di sei figli, all’età di 12 anni lascia la scuola per lavorare in una fabbrica di margarina. Da quel momento in poi acquisirà una consapevolezza rispetto alla propria condizione di operaia, che svolgerà con orgoglio, riconoscendone un valore al pari di quella delle classi più agiate. Ma il suo sogno era quello di aprire un negozio di alimentari, progetto che si concretizzerà con il matrimonio e con l’aiuto del marito.

Oltre alle radici familiari e alla sua condizione operaia, Ernaux indaga anche il rapporto con la madre, fatto di urla e di violenza, ma anche di eccessi di tenerezza; tratti di un carattere che l’autrice non descrive come elementi particolari ma come parte di un tutto più complesso, dovuto alla storia e alla condizione culturale in cui la madre è cresciuta ed è situata.

Annie si vergogna per il modo brusco della madre di parlare e di comportarsi, soprattutto quando si accorge di somigliarle. La riflessione sulla condizione culturale continua, tant’è che dice: “C’era un abisso tra il desiderio di farsi una cultura e l’essere colti per davvero”, riferendosi alla madre.

Nel rapporto con la figlia nasce anche una sorta di inimicizia di classe, per cui le conquiste di Annie sono percepite dalla madre – secondo lo sguardo di Ernaux – come un affronto.

Per ottenere un’immagine sincera e veritiera della madre, Ernaux adotta uno stile più neutro possibile, tanto da dismettere i panni di figlia nel momento della scrittura.

Grazie al processo della scrittura, Ernaux dilata il tempo, anzi, ne crea uno tutto nuovo in cui può ancora stare con la madre, dove le due giocano un ruolo opposto: se la madre distrugge e dimentica a causa della malattia, Ernaux ricostruisce e intesse la tela.

Una donna” è una continua riflessione sulla scrittura, su come raccontare i fatti e l’ordine migliore con cui presentarli, in modo da restituire una verità sulla madre, appuntando date e ricordi che tracciano il sentiero da ripercorrere a ritroso, con flashback e immagini.  

Immagini che vale la pena di ricordare. Immagini che ad un occhio esterno possono apparire scollegate – rese testualmente come una sorta di elenco – e senza senso, addirittura banali, ma che per una scrittrice che ha come obiettivo quello di ricordare sono essenziali: sono le prove di ciò che è stato e che non ritornerà.

In ogni titolo di Ernaux – ad esclusione de “Gli anni” in cui l’autrice adotta uno sguardo più ampio sulla storia e sulla cultura, tralasciando gli aspetti più prettamente autobiografici – la scrittrice fa un passo indietro: descrive i fatti con obiettività e con un occhio clinico su tutto ciò che la circonda.

Neppure le persone che hanno fatto parte del suo nucleo familiare sfuggono alla sincerità di Ernaux, che ci tiene a raccontare la verità, ciò che è stato, affinché ne rimanga traccia.

Come ricorda spesso l’autrice, la sua opera è sì letteratura, ma è anche uno studio sociologico che, descrivendo il particolare e la propria condizione familiare, racconta l’universale: la Francia durante la Seconda guerra mondiale, la condizione operaia, le differenze culturali e di classe, l’emancipazione femminile.

Ogni libro di Ernaux è un tassello in più per conoscere la donna che è stata e che adesso è: le sue radici e il distacco dalla famiglia per guadagnarsi una condizione socioculturale migliore.

Con “Una donna”, il puzzle della vita di Annie Ernaux è sempre più completo.