Una cosa piccola ma buona al giorno: 3 gennaio 2019

Secondo Wikipedia, nel 2011 a Monteguidi eravamo in centoquarantaquattro.

Ci possiamo contare sulla dita delle mani. Siamo persone che si stringono l’un l’altra, soprattutto nei momenti di dolore. La casa che si riempie di voci che ti augurano di stare bene e che tutto andrà meglio appena ti sarai ripreso.
Io abitavo al numero 1, convinta di essere il primo cittadino di Monteguidi. 

Casa dei miei nonni, Monteguidi

Quando ero una bambina – e poi un’adolescente – spesso rimproveravo ai miei genitori di non aver scelto un posto migliore dove abitare, un posto più vicino al cinema e ai miei amici.
Ho letteralmente odiato quelle cento case che mi isolavano da tutto e non nego di aver sentito un pizzico di felicità quando cinque anni fa metà della famiglia si è spostata da un’altra parte. Ingenuamente ho creduto che quella fosse la scelta giusta per tutti e che in un modo o nell’altro mi sarei affezionata anche alla nuova casa, se non di più.
A volte fa un po’ male tornare nei luoghi in cui tutto è cominciato e poi finito, ma ci fai l’abitudine e ti convinci che tutto quello che è successo fosse inevitabile. Doveva andare così.


L’aspetto positivo, la cosa piccola ma buona, è che cerchi ogni volta di accantonare il presente un poco buio per ritrovare la luce dei vecchi ricordi.

Quando in quella casa si è mangiato in dieci intorno ad una tavola; quando nonno tornava con i secchi di legna; quando nonna cuciva in quella terrazza guardando la gente che passava; quando mi nascondevo dietro la porta di cucina per spaventare nonno; quando un anno Pasqua cadde il giorno del compleanno di Sara e noi piccini, soprattutto Sara, eravamo felici il doppio; quando nonno guardava i film di cowboy mangiando le noci o i lupini davanti al fuoco; quando alla domanda come va, nonno rispondeva sempre tutto okay anche se forse tutto okay non era.

Ora aspetto la primavera per rivedere nonna seduta in terrazza a cucire, a guardare la gente che passa e a curare i fiori.
Adesso ogni volta che vado a Monteguidi scatto una fotografia al paese da una curva lontana.
Le stagioni se ne vanno via velocemente ma le persone restano ed è sempre un piacere contarci.

Una cosa piccola ma buona al giorno: 8 dicembre 2017

Oggi sono stata a pranzo dai miei nonni, con mia sorella e babbo.
Abitano nel paese in cui sono cresciuta, una manciata di case che riscaldano persone intorno ai loro camini accesi.

Anche i miei nonni hanno un camino. Fino all’anno scorso, mio nonno scendeva nella cantina per riempire un secchio di legna, con il giubbotto di velluto a righe e il cappello che per me era da cowboy, ma crescendo ho capito che era un semplice cappello verde ma elegante che lui indossava per uscire di casa. “Nonno, copriti bene perché prendi freddo!” E si chiudeva la porta alle spalle.


Rientrava in casa con il secchio pieno di legna ed i soliti due ciocchi che portava sotto braccio. Li accatastava accanto al camino, nell’angolo vicino alla porta del terrazzo.

Nonna invece cuciva. Mi ha sempre consigliato di imparare a cucire, perlomeno ad “attaccare un bottone alla camicia di tuo marito“. 
Io mi sono sempre rifiutata.
Lei cuce da anni vicino al camino con le gambe distese vicino al fuoco, o seduta sul divano con la luce del sole che entra dalla finestra alle sue spalle. Ci hanno fatto mettere anche le inferriate, alla finestra, perché loro sono anziani: di notte vogliono stare tranquilli .

Quando mia mamma aveva mia sorella nella pancia, io dormivo con i miei nonni nel loro lettone matrimoniale. Stavo nel mezzo. Nonna mi cullava, mentre nonno si addormentava di traverso ed io a nonna le dicevo: “Nonno mi fa il cancello!” “Ferruccio, fai entrare anche Ambra!”, e finalmente ci addormentavamo tutti e tre, in attesa di quella sorellina che avrebbe invaso altro mio spazio.

Oggi nonna mi ha chiesto se vado mai in chiesa. Io le ho detto di no e lei mi ha risposto che qualche volta sarebbe opportuno andare. 

“Per me era un modo per levarmi di casa. Mi mettevo i vestiti buoni e uscivo.”

All’età di cinque o sei anni, quando per il pranzo della domenica nonna preparava il pollo arrosto per tutti, io salivo su una sedia piccina, come quelle dell’asilo, e stavo accanto a lei ad osservare. Mi piaceva impepare e salare il pollo, metterci la salvia e il rosmarino. Era un momento nostro che tuttora ricordiamo con allegria.

Un giorno mio padre mi sgridò fortissimo ed io decisi di andarmene di casa. Gli urlai contro: “Io vado via! Non voglio più stare con voi!” e riempii una valigia. Avevo soltanto un posto dove correre al riparo: casa dei nonni, al piano di sotto.

Nonna mi accolse chiedendomi di raccontarle che cosa fosse successo ed io le dissi che avevo litigato con babbo e mamma e che avevo intenzione di non abitare più con loro, bensì con lei e mio nonno, nella cameretta in cui 25 anni prima aveva dormito mio padre con mio zio.
Ebbi una nuova casa per un giorno, poi tornai al piano di sopra, accontentando i miei genitori che comunque sapevano che avrei risalito le scale molto presto.

Quando era l’ora di fare merenda, mia nonna mi chiamava dal terrazzo e mi preparava pane e pomodoro. Lo faceva tutto a pezzettini e me lo portava sugli scalini di casa, dove io consumavo la merenda con una forchetta mini ed un tovagliolo per pulirmi la bocca.

Tra mio nonno Ferruccio e mia nonna Silvana, io somiglio a mio nonno.
Tante volte lui ed io ci capiamo con uno sguardo.
Tante cose preferiamo non dirle e se soffriamo lo facciamo in silenzio.
Tante volte quello che lui non dice io lo sento, so cosa vorrebbe dire, ma per orgoglio o per fragilità, tace.

Nei nostri attimi di silenzio non c’è imbarazzo perché quel silenzio è nostro, lo abbiamo scelto e ci stiamo comodi.

Da mia nonna ho imparato a prendermi cura dell’altro, a rimboccare le coperte a mia sorella e a scrivere in corsivo la N come una U e la M come una doppia U, come fanno i grandi. Ma non ho mai imparato a cucire.