Oggi, 1 giugno, comincia il mio personalissimo progetto SVUOTA LIBRERIA.
Ho dei libri – in realtà nemmeno troppi – che giacciono nella libreria da trecentomila anni, e visto che pianificare la vita mia e degli altri mi piace un botto, allora mi sono detta ma sì, programmiamo anche questa nobile impresa!
Chissà se entro i prossimi sei mesi la mia libreria potrà aggiudicarsi il premio come libreria più snella e vuota del globo. L’intenzione è infatti quella di arrivare a fine anno con tutti i libri letti. Rido già da sola.
Qui sotto la lista dei libri da spuntare per arrivare al goal finale!
Ieri, mentre stavo tornando a casa e guidavo la mia seicento che da un giorno all’altro mi lascerà a piedi, ho sentito che era arrivato il momento di scrivere di questa cosa qui, per tutte le volte che mi vedi strana.
Perché sì, spesso, da un po’ di tempo, in precisi momenti io divento strana. Mi assento. Sparisco. Non sento più niente. Cioè, in verità sento, ma non le voci degli altri. Sento solo il mio corpo e la vocina nella testa che dice: “Stai per sentirti male. Devi scappare subito.”
Ci sono dei momenti precisi in cui questa cosa si presenta e mi scollega la mente dal corpo. Mi proietto in avanti, nel futuro, e tanti saluti al qui e ora. Potrebbe succedere di tutto: un’esplosione, un cane che sbuca fuori dai cespugli all’improvviso mentre sono a passeggiare, il terrazzo che cede (giuro che non scherzo). Giusto per non farmi mancare niente ho appeso un planisfero alle pareti della mia camera, proprio vicino al letto. Da quando è lì vivo nel terrore che il chiodo possa cedere e che il planisfero cada a terra facendo un tonfo fortissimo.
Ho il terrore dei rumori forti e improvvisi. All’età di 28 anni sto ancora lontana dai palloncini e mi tappo le orecchie a ogni spumante da stappare. A volte mi paragono a zia Josephine, il ruolo interpretato da Meryl Streep nel film Una serie di sfortunati eventi. Non sono proprio a quei livelli ma poco ci manca.
zia Josephine, mio alterego
Di questo mio malessere io accuso soprattutto la pandemia, ma in realtà non so quanta responsabilità in percentuale abbia e quanto in verità sia io a non voler vedere altri fattori.
Nella mia mente, il periodo di pandemia ha spento il tempo. Il tempo è diventato infinito. Non c’era più bisogno di controllare né di pianificare perché tutto era in dubbio. Sempre.
Quando però abbiamo ricominciato a uscire, ad avere vita sociale, io non sono stata più capace a starci in quel tempo. Non so più aspettare. Non so ascoltare. Non so stare ferma per tanto tempo. Adesso non potrei prendere un bus, né stare ferma seduta a lezione all’università come facevo prima.
Mi sono accorta di soffrire di questa cosa quando ho ricominciato con le ripetizioni. Entravo nelle case degli altri e dopo dieci minuti dovevo scappare. La prima volta non l’ho capito. Ha cominciato a farmi male la pancia e ho accampato una scusa e me ne sono andata. Poi è successo di nuovo, e ancora e ancora. Con persone diverse, con le mie amiche, con Gianluca, a casa mia. Quindi sono giunta alla conclusione che la cosa che mi causa questa cosa è la gestione del tempo. Io vorrei velocizzare e controllare i minuti ma non posso. Devo stare nel presente e abbassare lo stato di allarme costante in cui mi ritrovo a vivere da mesi.
La cosa assurda è che io vivo tutto questo non quando sono in contesti con tante persone (conclusione logica dato che veniamo da una pandemia) ma, al contrario, proprio nella tranquillità. Per stare ferma a parlare con le mie amiche mi ci vogliono almeno venti minuti per ambientarmi, capire le vie di fuga, pur essendo in casa loro, un posto che frequento da quasi trent’anni e dove mi sono sempre sentita al sicuro.
Quando questa cosa si fa pesante e non riesco più a tenerla nascosta, allora sono costretta a dire tutto a voce alta, avvisare che è un periodo un po’ così ma non fateci caso, passa. E invece non passa. E sento una scarica di adrenalina fortissima che mi costringe a piangere. Scarico la tensione e tutto torna tranquillo. Ma devo essere al sicuro, con persone che mi conoscono e che sanno di questa cosa che ancora non sono riuscita a definire. Non so se siano attacchi di panico, attacchi d’ansia. Non lo so. Io so solo che in quei momenti vorrei aria, camminare e non ascoltare più.
Quando mi prende molto forte devo contare. Conto i secondi, le bottiglie sulle mensole e tutto quello che mi capita a tiro. Altra cosa che mi aiuta è ascoltare le persone in un modo particolare. Immagino le parole che escono dalla loro bocca, come un fumetto, e io devo leggere anziché ascoltare. Quindi mi concentro sulle parole e sento che l’ansia – la cosa – cala e torno in me. A volte mi basta muovermi sulla sedia e sentirmi: sentire che io sento il mio corpo e che posso controllarlo.
Se dico di questa cosa a più persone sto meglio. Senza scendere nei dettagli, ma solo anticipando. Sì, potrei diventare strana ma abbi pazienza che torno in me e ti ascolto. Dammi almeno venti minuti di bonus e ci sono. Adesso, per tutte le volte che mi vedi strana, sai il motivo.
Il 2021 è stato un anno luuuuunghissimo. Non vedevo l’ora che finisse.
Ho l’impressione di aver ricominciato a vivere da giugno, con l’arrivo dell’estate. I primi mesi invece sono stati un continuo cambio di colore tra rosso, arancione e giallo. Posso venire da te? Ma si può andare a camminare? Un casino.
Tralasciamo poi il fatto che ho un buco temporale atroce nella testa. Per me il 2020 non è mai esistito.
Era ottobre 2019 quando cominciavo la magistrale super contenta e ora siamo quasi nel 2022 e in mezzo c’è stata – c’è ancora in realtà – una pandemia. Assurdo.
Il 2021 è stato un anno sì lunghissimo e difficile, ma è stato anche un anno di consapevolezze e di grandi pensieri profondi che ho deciso di raccontare qui. Il tutto sarà accompagnato dai best moments dell’anno.
Cura: da circa un mese ho iniziato ad andare dalla psicologa e questa cosa mi dà un sacco di felicità e di soddisfazione. Ho sempre avuto la convinzione e la paura di essere un peso per le altre persone e questo mi ha portato per tanti anni a non confidarmi e a non avere fiducia negli altri. Il fatto che ci sia una nuova persona nella mia vita che sta imparando a conoscermi e che mi ascolta mi rimette in pace con il mondo. A volte fa male scavare, trovare dei collegamenti, analizzare dei brutti fatti che mi sono accaduti. Ma è giusto che li affronti, che metta insieme i cocci. Non lo faccio solo per me ma anche per le persone che mi circondano.
Io e Gianlu in Puglia
Leggere: un conto è leggere, un conto è leggere bene. Sto imparando ad andare più a fondo, a spezzettare un libro. Lascio sedimentare e cerco di ritrovarmi in quello che leggo, che è il motivo per cui leggo. Leggere mi serve per riempire i vuoti e per riconoscermi.
Giorgi su un letto di stelle
Famiglia: la famiglia è importante, anche se spesso non è quella in cui cresci ma quella che ti crei nel tempo. Ci vuole tanto impegno nel costruire e mantenere relazioni sane. Bisogna anche imparare a lasciar andare, a farsene una ragione. Alcune persone non cambiano, ma puoi cambiare tu.
Dile, Marghe e io al matrimonio di Marghe
Scrivere: tenere un diario, appuntare i pensieri profondi e provare a sciogliere i nodi mi resta più semplice se lo faccio in forma scritta. Ho un quadernino dove spesso scrivo cose, ormai dal 1 gennaio 2019. Non scrivo tutti i giorni, ma scrivo. Scrivo dei libri che leggo, delle sedute con la psy. Tante cose.
Torta di compleanno di Dile
Formazione: gli ultimi mesi dell’anno sono stati indirizzati soprattutto alla formazione. Oltre a studiare per gli esami dell’università, ho seguito due corsi: uno organizzato dalla casa editrice MarcosyMarcos e uno da Langue & Parole. Mi piace il mondo dei libri e dell’editoria. Voglio approfondire, imparare cose nuove, investire su di me.
Gianlu e Leo
“L’università non è un fine ma un mezzo!“: questa frase me l’ha detta Gianlu durante una delle mie solite crisi in cui mi chiedo che cavolo fare da grande. Da quel momento, ogni volta che non ho voglia di studiare per un esame o mi dimentico il perché di una magistrale in comunicazione, mi ricordo di quella frase e ho subito la voglia di andare avanti per scoprire che cosa potrò fare dopo. Anche perché un dopo ci sarà eh.
Sara e Giorgi
Respirare: non devo per forza riempire ogni momento. Bisogna che impari a stare nel silenzio e ad annoiarmi. Ma non voglio farlo. Non voglio rallentare, perché se mi fermo e mi ascolto, quello che sento mi fa male, e mi costringe a pensare e a scontrarmi con episodi che credevo archiviati per sempre. Ma mi devo sforzare, quantomeno provare. Devo respirare.
Io pazza che vado a giocare a tennis e rischio l’infarto
Non distruggere: tante volte ho detto di non meritare del bene o di non credere che qualcosa di bello potesse accadere davvero a me. Non mi è mai sembrato possibile che una persona potesse volere del bene proprio a me, o che credesse davvero nelle mie capacità. E visto che per me non poteva essere possibile, distruggevo tutto per cercare le conferme di quella impossibilità. Però, forse – e lo dico sottovoce perché ancora non ci credo tantissimo – se delle persone mi vogliono bene e credono in me, forse qualcosa di bello ce l’ho. Forse, dovrei essere io a volermi più bene. Ma ne riparliamo nel 2022.
I libri che raccontano di famiglie mi fanno sempre un male atroce, e questo, “L’Arminuta“ di Donatella Di Pietrantonio, ha fatto più male di altri. Nell’arco di una settimana ho voluto – e dovuto – leggerlo due volte, per poi continuare a sfogliarlo alla fine di entrambe le letture. La prima lettura è volata via in poche ore tanta era la voglia di sapere, di capire, di farmi del male. La seconda, invece, è stata più lenta, ed è servita a cogliere alcuni dettagli che alla prima lettura mi erano sfuggiti.
L’Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi (2017)
“L’Arminuta” è la storia di una bambina di cui non conosceremo mai il vero nome. Per noi e per le persone che le gravitano attorno sarà soltanto l’Arminuta: la ritornata.
Ritornata da dove?
Tutto comincia nell’agosto del 1975 quando la protagonista ha 13 anni. Fino a quel momento, la bambina ha vissuto in quella che credeva essere la suavera famiglia, ma durante quella torrida estate viene restituita alla famiglia di origine, sangue del suo sangue. Ed è proprio là che fa ritorno.
La storia è raccontata in prima persona dalla protagonista, che, ormai adulta, ripercorre con un lungo flashback quel periodo preciso della sua infanzia. Un periodo in cui ha subìto violenze ed ha vissuto nella menzogna, ma ha anche imparato a voler bene e a riceverne altrettanto indietro.
Oltre al tema degli affetti familiari, soprattutto il legame con la doppia figura della madre, è fortissimo anche quello della sorellanza. Infatti, non appena l’Arminuta ritorna, scopre di avere una sorella, Adriana, ma anche altri fratelli, tra cui Giuseppe, il più piccolo, e Vincenzo, il fratello maggiore, il personaggio che mi è entrato nel cuore.
Quando comincia la storia, Adriana ha 10 anni, tre anni in meno della sorella. Pur provenendo da due mondi opposti – l’Arminuta è comunque cresciuta in una famiglia borghese, mentre Adriana ha vissuto da sempre nella povertà – le due si completano, e grazie a questa complicità riescono ad affrontare la violenza e a crescere. Adriana protegge la sorella, comportandosi da sorella maggiore. Ha riconosciuto nell’Arminuta un’intelligenza e una particolarità che non appartengono a quel mondo di povertà e di abusi, e che quindi vanno tutelate.
“Non mi sono mai spiegata il gesto di una bambina di dieci anni che le buscava ogni giorno, ma voleva salvare il privilegio di cui godevo io, la sorella intoccabile tornata da poco.”
L’altra importante figura nella vita dell’Arminuta è sicuramente Vincenzo. Vincenzo non si arrende alle violenze del padre. Fugge spesso, trascorrendo le notti fuori casa, senza che nessuno si preoccupi di lui. Pur avendo subito soprusi per anni, Vincenzo mantiene una sensibilità e un senso del dovere nei confronti della famiglia, con l’obiettivo di dimostrare al capofamiglia di essere migliore, anche migliore del padre stesso.
Arrivando nella nuova famiglia, l’Arminuta deve imparare dei nuovi termini: un nuovo lessico famigliare, come direbbe Natalia Ginzburg. Riconoscersi nel nuovo reticolo, ma soprattutto riconoscere Vincenzo, il fratello maggiore che non credeva di avere:
“Non eravamo abituati a essere fratelli e non ci credevamo fino in fondo.”
Dal momento in cui fa ritorno, la bambina vive nell’omertà: tutti sanno il motivo per cui è stata restituita, ma tacciono. Tutti sanno, tranne lei. Così si colpevolizza. Si chiede quale colpa abbia commesso. Perché non vengono a riprenderla?
Col passare del tempo, il personaggio dell’Arminuta acquisisce sempre più consapevolezza, si incattivisce. La conosciamo che è una bambina illusa, indifesa e speranzosa, ma nel corso della storia diventa spigolosa e coraggiosa, capace di affrontare più volte la vera madre.
Non solo.
La consapevolezza che acquisisce le permette anche di scegliere a quale mondo appartenere e in quale sinceramente riconoscersi, in un universo fatto di due madri, una più ingombrante dell’altra: la prima a causa della sua presenza rumorosa, la seconda per la sua assenza improvvisa e ingiustificata.
“Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori.”
La scrittura di Di Pietrantonio è fatta di immagini e di dettagli. Mi ha trasmesso una certa claustrofobia, quasi un soffocamento: mi mancava l’aria tanto quanto è mancata all’Arminuta in quella nuova casa.
Se vi è piaciuta la saga de L’amica geniale di Elena Ferrante, sicuramente L’Arminuta può fare al caso vostro.
Verso la fine dell’anno passato mi sono lanciata nel mondo delle graphic novel. Ne ho lette alcune di cui ho già parlato qui sul blog, seppur molto brevemente (di una in particolare, La Giusta Mezura di Flavia Biondi, ne discuteremo perché ormai ha conquistato un pezzettino del mio cuore). Quest’anno – per ora, anche se manca un mese alla fine del 2021 – ne ho letta soltanto una, ovvero Non stancarti di andare, di Teresa Radice e Stefano Turconi, edita da Bao Publishing (2017).
Non stancarti di andare, Teresa Radice e Stefano Turconi, Bao Publishing (2017)
Non stancarti di andare racconta la storia di Iris e Ismail, una coppia di giovani fidanzati. Iris è una illustratrice che ha seguito il suo sogno, quello di disegnare. Ismail, invece, insegna calligrafia araba. Lui scrive, lei disegna: vi ricordano un’altra coppia, forse? Sì, proprio Teresa Radice e Stefano Turconi.
Ismail e Iris si conoscono nel 2007 in Siria, paese d’origine del ragazzo. Si innamorano, e nell’aprile del 2013 decidono di andare ad abitare a Verezzi, in provincia di Genova, nella vecchia casa della bisnonna di Iris. Prima di cominciare la loro nuova vita nella casa di famiglia, Ismail deve tornare in Siria per sistemare alcune questioni personali, ma verrà trattenuto dalle forze armate e non potrà più contattare Iris. Trascorrono i mesi e Ismail dovrà affrontare tutti quegli ostacoli che quotidianamente sentiamo raccontati in televisione e sui giornali: campi di detenzione, barconi, vite che si spezzano.
A Verezzi, dall’altra parte del mondo, intanto inizia la doppia attesa di Iris, che spera nel ritorno di Ismail mentre ha in grembo Ismairis: Iris ha deciso di chiamare così il bambino – o la bambina – a cui scrive delle lettere nelle quali racconta di sé, dei suoi affetti, del mondo che un giorno abiterà quell’amore minuscolo che adesso si muove nella sua pancia; e racconta anche della sua famiglia: una famiglia molto particolare, fatta dell’amore delle persone che ha incontrato negli anni e che adesso le vogliono bene e sperano con lei nel ritorno di Ismail.
“Sei nel nostro cuore e nei nostri pensieri da sempre. Sei con noi dall’attimo in cui, anni e anni fa, il tuo papà e io ci siamo guardati e abbiamo capito che desideravamo continuare il cammino insieme. Verso l’infinito e oltre. Un cammino di mille e mille storie da scrivere, disegnare, osare, sperimentare, attendere, contemplare. Le storie della nostra storia. E tra queste ci sei tu. Da sempre.”
I personaggi che incontriamo sono tantissimi, tutti ben caratterizzati e con una storia molto solida. Tra tutti spicca sicuramente Padre Saul, ispirato alla figura di Padre Paolo Dall’Oglio – come spiegano gli autori al termine del libro. Padre Saul è il collante che tiene insieme tutti i legami di Iris e da cui hanno origine le storie che si dipanano tra le pagine della graphic novel. Infatti, è stato proprio Padre Saul a spingere e a benedire la storia di Ismail e Iris, durante quel viaggio in Siria del 2007.
Partendo dall’unione di Ismail e Iris, Radice e Turconi raccontano di una questione politica e sociale di cui sentiamo parlare e discutere quotidianamente. Ma non solo. Non stancarti di andare è anche il racconto autobiografico dei due autori, del loro viaggio in Siria e del loro incontro con Padre Paolo Dall’Oglio, il quale, abbracciandoli – come fa Padre Saul con Ismail e Iris – rafforza l’unione dei due, spingendoli verso la loro strada.
Di Radice e Turconi avevo già letto Viola Giramondo, una graphic novel dai toni molto più leggeri rispetto a Non stancarti di andare, in cui risaltano la solidità dei personaggi, intrisi di incertezze e di paure ma anche di forte voglia di indipendenza e di crescita, e la maestria dei due autori nel riuscire a raccontare almeno tre generazioni di una famiglia – quella di Iris – tenendo le fila dei diversi piani temporali, legati tra loro da corrispondenze epistolari, libri regalati da un padre ad una figlia e da continui flashback dolorosi, resi tramite un colore rosso acceso.
Il viaggio, l’attesa e la famiglia sono soltanto alcuni dei temi trattati nel libro. C’è anche il rapporto di Iris con sua madre, una figura ingombrante ma necessaria nella vita della giovane illustratrice. C’è la storia della Siria, un paese dilaniato e ricco di cultura.
Insomma, Non stancarti di andare è una graphic novel di più di 300 pagine che vi terrà incollat* alle pagine e vi farà scendere sicuramente qualche lacrimuccia.
2000 giorni. Mai avrei pensato di poterlo dire. Prima di conoscere te, per me era impossibile immaginarne cento, di giorni, figuriamoci 2000. Ma ci siamo. Duemila giorni che conservo tutti i nostri ricordi: letterine, foto, sorprese degli happy meal, bigliettini che a volte mi lasci in giro per casa. Dall’11 maggio 2016 – ma anche da un po’ prima – ogni anno che passa ha la sua busta dedicata. Alcune a fatica si chiudono perché sono pienissime, altre sono più vuote. In questi duemila giorni ci sono stati compleanni, Natali, feste con amici, discussioni, una pandemia, litigate quasi da tirarci i piatti, viaggi, progetti. Da duemila giorni sei la mia roccia; sei quello che tra i due disinnesca per primo e vede sempre il bicchiere mezzo pieno, mentre io manco il bicchiere. Non vedo l’ora di festeggiarne altri duemila, e poi altri ancora. Perché ormai li immagino anche io 💜
Cattolica 2017Concerto Thegiornalisti 2018Festa anni ’20, gennaio 2020Lago Trasimeno
“Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo.”
Immagine di SoloLibri.net
Dal 2016, anno in cui con “Gli anni” ha vinto il Premio Strega Europeo, anche in Italia abbiamo la possibilità di leggere l’opera, perlopiù autobiografica, di Annie Ernaux, scrittrice francese pubblicata da L’Orma Editore.
Come in “Il posto”, testo in cui Ernaux racconta della figura del padre e dove forti erano la tematica dell’emancipazione e del distacco dalla famiglia, in “Una donna” l’autrice affronta il lutto per la perdita della madre, affetta dal morbo di Alzheimer, iniziando a scriverne dopo poche settimane dalla morte.
Una donna, Annie Ernaux, L’Orma Editore 2018
“Mia madre è morta lunedì 7 aprile.”
Il testo si apre immediatamente con il fatto accaduto: la madre è morta nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove la figlia, Annie, l’aveva portata due anni prima.
Nata nel 1906, quarta di sei figli, all’età di 12 anni lascia la scuola per lavorare in una fabbrica di margarina. Da quel momento in poi acquisirà una consapevolezza rispetto alla propria condizione di operaia, che svolgerà con orgoglio, riconoscendone un valore al pari di quella delle classi più agiate. Ma il suo sogno era quello di aprire un negozio di alimentari, progetto che si concretizzerà con il matrimonio e con l’aiuto del marito.
Oltre alle radici familiari e alla sua condizione operaia, Ernaux indaga anche il rapporto con la madre, fatto di urla e di violenza, ma anche di eccessi di tenerezza; tratti di un carattere che l’autrice non descrive come elementi particolari ma come parte di un tutto più complesso, dovuto alla storia e alla condizione culturale in cui la madre è cresciuta ed è situata.
Annie si vergogna per il modo brusco della madre di parlare e di comportarsi, soprattutto quando si accorge di somigliarle. La riflessione sulla condizione culturale continua, tant’è che dice: “C’era un abisso tra il desiderio di farsi una cultura e l’essere colti per davvero”, riferendosi alla madre.
Nel rapporto con la figlia nasce anche una sorta di inimicizia di classe, per cui le conquiste di Annie sono percepite dalla madre – secondo lo sguardo di Ernaux – come un affronto.
Per ottenere un’immagine sincera e veritiera della madre, Ernaux adotta uno stile più neutro possibile, tanto da dismettere i panni di figlia nel momento della scrittura.
Grazie al processo della scrittura, Ernaux dilata il tempo, anzi, ne crea uno tutto nuovo in cui può ancora stare con la madre, dove le due giocano un ruolo opposto: se la madre distrugge e dimentica a causa della malattia, Ernaux ricostruisce e intesse la tela.
“Una donna” è una continua riflessione sulla scrittura, su come raccontare i fatti e l’ordine migliore con cui presentarli, in modo da restituire una verità sulla madre, appuntando date e ricordi che tracciano il sentiero da ripercorrere a ritroso, con flashback e immagini.
Immagini che vale la pena di ricordare. Immagini che ad un occhio esterno possono apparire scollegate – rese testualmente come una sorta di elenco – e senza senso, addirittura banali, ma che per una scrittrice che ha come obiettivo quello di ricordare sono essenziali: sono le prove di ciò che è stato e che non ritornerà.
In ogni titolo di Ernaux – ad esclusione de “Gli anni” in cui l’autrice adotta uno sguardo più ampio sulla storia e sulla cultura, tralasciando gli aspetti più prettamente autobiografici – la scrittrice fa un passo indietro: descrive i fatti con obiettività e con un occhio clinico su tutto ciò che la circonda.
Neppure le persone che hanno fatto parte del suo nucleo familiare sfuggono alla sincerità di Ernaux, che ci tiene a raccontare la verità, ciò che è stato, affinché ne rimanga traccia.
Come ricorda spesso l’autrice, la sua opera è sì letteratura, ma è anche uno studio sociologico che, descrivendo il particolare e la propria condizione familiare, racconta l’universale: la Francia durante la Seconda guerra mondiale, la condizione operaia, le differenze culturali e di classe, l’emancipazione femminile.
Ogni libro di Ernaux è un tassello in più per conoscere la donna che è stata e che adesso è: le sue radici e il distacco dalla famiglia per guadagnarsi una condizione socioculturale migliore.
Con “Una donna”, il puzzle della vita di Annie Ernaux è sempre più completo.
Ho deciso: voglio leggere più memoir. Il memoir è il mio “genere” preferito. Mi sembra di imparare molte più cose se leggo delle vite de* altr*. Quindi, ecco la lista di (quasi) tutti i memoir che vorrei leggere.
L’educazione, Tara Westover
Appunti sul dolore, Chimamanda Ngozi Adichie
Le donne a cui penso di notte, Mia Kankimaki
Le cattive, Camila Sosa Villada
Lucky, Alice Sebold
Il club dei bugiardi, Mary Karr
Fame, Roxane Gay
Tutti i bambini tranne uno, Philippe Forest
Sotto la falce, Jesmyn Ward
Priestdaddy, Patricia Lockwood
L’uomo che trema, Andrea Pomella
Il giusto peso, Kiese Laymon
Vertigo, Louise De Salvo
L’analfabeta, Agota Kristof
Una vita come le altre, Alan Bennett
A proposito di niente, Woody Allen
Correndo con le forbici in mano, Augusten Borroughs
Ieri è successa questa cosa qua: Marghe si è sposata. Era bellissima, elegante e felice. Lo sposo (@eg_m_l ) un bono pazzesco! 😎 Dile e io ancora non ci crediamo, ma è successo. Un altro pezzettino di vita che abbiamo condiviso noi tre. Sono vent’anni che ci conosciamo ma ci vogliamo ancora un bene infinito. In futuro, tantissime le cose belle che dovranno accadere. E ci stringeremo ancora di più, come in questa foto. Congratulazioni Marghe! Sei la nostra sposina del cuore ❤️ Ti vogliamo bene, ma tanto tanto!