Quarantine plan: giorno 13
Sono tredici giorni che Sara, mia sorella, imposta la sveglia alle 8.25. Fa sport in camera, con il tappetino e i pesi che avevo comprato io ai tempi d’oro in cui andavo in palestra e volevo fare esercizi anche a casa. Certo, come no!
Insomma, Sara si allena, suda e salta come una pazza. Poi fa colazione e si mette a studiare.
“Ambra cazzo ma fai qualcosa! Alza il culo!”, mi ha detto una volta. O forse erano due.
Fatto sta che ieri mattina mi sono alzata davvero. Sono uscita in giardino e ho iniziato a camminare su un tapis roulant non elettrico, con una leggera pendenza e duro come la sfida contro il coronavirus.
Dopo quindici minuti di camminata avevo il cuore in gola e il latte e caffè che faceva capolino anche dalle orecchie. Sono scesa dal tapis con gli svarioni. Mi sono distesa sul letto. “Gente vado in bagno. Potrei anche vomitare ma non vi preoccupate!”
Falso allarme: latte e caffè sono rimasti al loro posto.
Stamani ho riprovato. Sveglia alle 8.23. Mi metto la tutina, esco in giardino e salgo sul tapis.
Sette minuti e il nastro si inceppa. I vicini mi guardano dalla finestra. Ma perché mai questa si deve allenare con un tapis roulant tarocco?!
“Mamma il tapis non funziona più!”
Ma ormai ero calda. VOLEVO FARE SPORT!
Chiamo Sara (che nel frattempo aveva già finito due circuiti). “Allenami! Sono calda. Fammi fare qualcosa!” “Comincia con questo.”
Mi stendo a terra ma mi fanno male la schiena e il culo.
Allora faccio colazione (che non avevo ancora fatto per paura di ripetere l’avventura di ieri col latte e caffè), finisco la terza stagione di Bojackamoremiocarissimofaccioiltifoperte e penso che mi annoio.
In tredici giorni il mio umore tocca il picco più alto quando vado a buttare la spazzatura, alle 18.10. Prima c’è il bollettino della Protezione Civile. Sentiamo il numero dei morti e dei nuovi contagiati. Sospiriamo, Sara e io, e poi usciamo a buttare la spazzatura, che mamma ci lascia, proprio come un favore che fa a noi.
E arriviamo a ora, in questo momento in cui sto scrivendo. Mi sono detta che la quarantena si vive una volta sola, come il matrimonio. Tanto vale trasformarla in qualcosa di carino. “Scriverò il diario di bordo!”
Dato che sono già indietro di 13 giorni (come passa il tempo quando ci si diverte), ecco l’elenco di quello che ho fatto e che probabilmente rifarò dato che la fine è lontanissima:
- Dipinto Chicken Little in tenuta da giocatore di baseball che attende di ricevere una palla. Ha la faccia cazzutissima. E’ diventato ridicolo perché ho ripassato col pennarellino nero i pantaloncini e gli ho lasciato fuori dal pantalone la zampa. Quindi ha una zampa staccata dal corpo.

- Imparato a fare il verso delle tortore.
- Messo insieme due note di “Tanti auguri a te!” col flauto delle medie.
- Vagamente pensato di comprare un ukulele giallo con i disegni di Spongebob.
- Vagamente pensato di comprare un nuovo tapis roulant.
Domani è domenica e sul quarantine plan di Sara c’è scritto grosso come una casa:
CHE CAZZO MI PARE.
Quindi per domani si aprono diversi scenari. Abbiamo altri personaggi cazzuti da dipingere, poi faremo un dolce e probabilmente inizieremo a parlare al contrario.
Una sorella fa comodo in certi casi.
Giorno x+infinito: farsene una ragione
Giorno diciannove. O venti. Ormai inizio a perdere il conto.
Questo è il terzo fine settimana che passo da sola a casa. Di solito i fine settimana mi trasferisco in un’altra casa, dove ci sono un divano giallo e due barattoli per la pasta, e delle foto carine attaccate al frigorifero con una calamita.
Il sabato e la domenica sono i due giorni più difficili della settimana. Dal lunedì al venerdì, le lezioni all’università e lo studio mi tengono impegnata. In quei giorni ho uno scopo. Una scaletta da seguire. Ché se perdi un pezzo rimani indietro, anche se sei davanti ad un pc in pigiama e in pantofole.
Quando a febbraio sentivo gli studenti di altre parti di Italia costretti in casa a frequentare le lezioni online e ad affrontare esami su skype pensavo: “Poracci! Tanto a noi non toccherà mai!”
E invece no. Povera ingenua. Non avevo capito niente. E anche ora stento a farmene una ragione e a pensare razionalmente a quello che sta succedendo.
Purtroppo sono una di quelle persone che nasconde la testa sotto la sabbia quando c’è un problema da affrontare. Poi mi tocca anche tirarla fuori eh, ma di solito c’è qualcuno che mi dice: “Ma che cazzo fai? Non puoi far finta di niente. Questo è un problema da affrontare. La realtà è questa. Fattene una ragione!”
Così dal 5 marzo abbiamo cominciato anche noi con le lezioni a distanza. La prima settimana è stato quasi divertente, col maglioncino carino sopra e i pantaloni del pigiama sotto. Col gatto che annusa la webcam appena ti allontani e si mostra in mondovisione.
Venerdì scorso un mio professore ha iniziato la registrazione dicendo: “Oggi è il 20 marzo. Domani è il primo giorno di primavera e noi siamo sempre qua.” E il nostro professore ha questo bruttissimo vizio di ricordarci di come sarebbe stato se fossimo stati in classe. (Continuo a dire classe ma dovrei dire aula. Faccio l’università ma sono sempre alle elementari)
“Sicuramente, se fossimo stati in aula qualcuno avrebbe alzato la mano e ne avremmo discusso.”
Invece no, prof. Siamo qui davanti a uno schermo e chissà quando potremo di nuovo lamentarci delle vie di Pantaneto che puzzano di ragù alle 8.30. O degli adolescenti che si ammassano come bufali negli ultimi posti del bus.
Inizia a non essere più tanto divertente.
Sono particolarmente sensibile in questo periodo. Quando in tv passano dei filmati (ormai catalogabili come di un’altra epoca) in cui le persone possono abbracciarsi, a me prende il magone.
Non so come il resto del mondo stia affrontando tutto questo. Sicuramente stiamo vivendo un momento epocale che verrà raccontato nei libri di storia dei prossimi anni. Il nostro stile di vita è cambiato. La nostra concezione degli altri e del mondo è cambiata.
Chissà come sarà quando riprenderemo ad uscire. Chissà se riusciremo ad avvicinarci al prossimo come facevamo fino a venti giorni fa. Adesso siamo tutti nemici di tutti.
Oggi mamma, Sara ed io abbiamo fatto cinquanta bomboloni e abbiamo deciso di darne un po’ a due nostre vicine di casa che in questo momento affrontano le giornate da sole.
Le abbiamo chiamate al telefono prima, per dire che avevamo fatto i bomboloni alla crema, alla marmellata e alla nutella.
Sono scesa in strada con un piatto che profumava di dolci. “Che facciamo? Li lasci lì al cancello? Oppure puoi lasciarli sulla finestra e li prendo dopo, così non ci avviciniamo troppo.”
Nessun contatto. Solo un come va? e l’ennesimo grazie urlato quando entrambe eravamo già nel nostro rispettivo cancello. Nel nostro perimetro. Al sicuro.
Giorno 14 e denti che non stanno al loro posto
Mi ricordo ancora di quando alle medie tenevo un diario in cui appuntavo tutto quello che succedeva nella giornata. Come un flusso di coscienza adolescenziale scrivevo dei miei amori non corrisposti, delle canzoni bruttissime che ascoltavo, dei miei genitori che discutevano. Era una valvola di sfogo e mi tenevo compagnia così. Anche perché abitavo a Monteguidi e ormai anche i muri sanno che Monteguidi non è che pulluli di socialità.
In questi giorni sembra di esser tornata a quelle estati, quando non c’era quasi niente da fare se non giocare a pallone in piazza e distruggere i fiori della chiesa. Ma non lo facevamo di proposito. Volevamo solo giocare e tenerci compagnia.
Stanotte ho avuto un incubo. Anzi due.
Nel primo ero in quarantena (i casi della vita). Mi cadevano i denti e anche le gengive. Quando mi sono svegliata mi sono chiesta come facciano le gengive a cadere: è possibile?
Non riuscivo a tenere la bocca chiusa perché i denti mi uscivano dalle labbra. Non potevo andare dal dentista perché tutti i dentisti di Italia erano chiusi. Piangevo ma nessuno sembrava ascoltarmi.
Non ho idea di come abbia risolto perché poi mi sono lanciata nel secondo incubo.
Ero sul bus che mi porta all’università. Eravamo tutta la mia famiglia, sia da parte di mamma che da parte di babbo. Tutto regolare, se non che avevo come zio Claudio Lippi. E avevo anche dei ricordi d’infanzia legati a lui perché nel sogno io pensavo a quando ero piccina e giocavo con zio Claudio. Bah.
C’era anche un pastore tedesco a cui ho voluto tanto bene.
Ieri sera mi sono addormentata col primo piantino della quarantena. Mi sembrava strano che riuscissi a tenere botta per così tanto tempo e così bene. Dovrò farci l’abitudine.
Perché non sarà sempre semplice.
Sono le 17.20 e credo che per oggi non dipingeremo nessun personaggio coraggioso.

Giorno 1 bis
Mai avrei pensato che sarei tornata a scrivere qui con lo stesso motivo per cui ho iniziato quasi un anno fa.
Quarantena, pandemia, noia, sconforto.
Ma che bello! Siamo di nuovo qua. A costruire un calendario su un foglio a quadretti. A dividere il mese in settimane e le settimane in giorni e i giorni in ore. Occuparle in qualsiasi modo, con una legenda di ottantotto colori diversi: studiare, leggere, imparare cose, scrivere altre cose, pulire Leo con lo shampoo al mirtillo, perdersi nelle fisime, brivido d’ansia e si ricomincia.
Io non ci capisco più niente. Non capisco quando si può uscire, quando posso vedere altre persone. Cosa posso fare e che cosa no.
Comunque da oggi, giorno 1 di una specie di quarantena non si sa se per troppo buon senso o per ipocondria o perché non ho comunque motivazioni per uscire di casa, sto chiusa in casa, con mamma che lavora in reparto covid.
Dopo un anno, quando abbiano iniziato a sperare e pensare che il problema stesse rientrando, ecco la batosta. E allora, sempre dopo un anno di attese e di stomaco che si stringe, di dai poi passa, dai che andrà meglio, dai che siamo alla fine, eccoci a stringere i denti un’altra volta.
Lo so che siamo comunque in una condizione privilegiata. Lo so che c’è di peggio: lo so bene.
Ma un po’ mi comincia a rodere il culo sinceramente. E sembra che, siccome sei in una condizione privilegiata, non puoi permetterti di fare pio perché eh no te proprio non puoi dirlo, guarda come state bene. e che vi manca scusa?
Allora, ieri è iniziato questo nuovo gioco che si chiama NON TI AVVICINARE A MAMMA NON SI SA MAI. Io mamma l’ho sempre abbracciata poco, ma ora mi scoccia non stringerla. Lei dice sempre, quando mi vuole abbracciare, che le servono gli ormoni e io ci rido quando me lo dice. Come se io le passassi pacchettini di ormoni che la fanno essere felice.
Ieri sera ho scritto il nome sulle posate. Ho spostato le mie cose in camera di Sara perché c’è la televisione. Ho preso i libri che voglio leggere, i quaderni per seguire le lezioni perché da martedì si ricomincia e quasi sono contenta, anche se i miei due anni di magistrale si sono svolti in camerona e con le pantofole ai piedi.
Non capisco se sono esagerata, se sono pazza. Non lo so. Ho paura e anche ammettere di avere paura sembra da pazzi.
Ma di che hai paura? Hai vent’anni! (27 a settembre NOTA BENE!)
Però io ho paura. Mi sento come quando eravamo a marzo 2020, quando ho addirittura colorato un Chicken Little e stavo a sedere sugli scalini al sole a pensare pensare pensare.
Stavolta forse mi dedicherò alla ceramica. O a riordinare i bottoni e i calzini spaiati.
E pensare che mi sono sempre vista come la persona più asociale del pianeta, a cui fa schifo la gente. Ora tutta quella gente mi manca. Voglio tornare anche in discoteca non me ne frega niente se sono in ritardo con la tabella dell’età. Voglio fare tutte le cose che non ho fatto da piccina perché volevo starmene da sola, finta timidina e rincoglionita.
Nelle mie ore di libertà penserò alle cose che vorrò fare finito ‘sto delirio. Metterò anche questa attività nel mio calendario che comincia oggi.