Stanotte ho avuto un incubo.
Sono ripiombata negli anni del liceo, quando nel 2010 smisi di andare a scuola perché stavo male.
Nel sogno è il 2020. Ci sono le mie amiche Dile e Marghe e tutti gli altri compagni del liceo. E c’è anche il coronavirus. Nel sogno è il primo giorno di scuola (non università) dopo i mesi di stop e di lezioni a distanza.
è il mio primo giorno ma non per tutti gli altri. I miei compagni hanno ricominciato prima di me, hanno tutti un tesserino che dimostra la loro perfetta salute e non portano la mascherina. Io invece sì, ho la mascherina, e mi stanno a distanza. E io piango perché ho paura di essere malata e perché mi sento isolata da tutti.
Nell’attesa di entrare nell’aula sanificata, chiedo a Diletta se può farmi il riassunto dei giorni in cui non ci sono stata, dei compiti assegnati e dei nuovi argomenti. “A matematica”, dice, “abbiamo fatto il calcolo integrale.” “Che cos’è?”, chiedo io già nel panico. “Il calcolo integrale serve per capire se le risorse della Terra sono sufficienti o se dovremmo produrne ancora.”
(Questo dialogo credo sia frutto della pizza e della birra di ieri sera, ma andiamo avanti)
Alle parole calcolo integrale chiamo subito la signora che alle medie mi dava ripetizioni di matematica.
Il sogno poi finisce con Diletta e Marghe che mi rassicurano, dicendomi che mi aiuteranno a rimettermi in pari.
Perché mi sono svegliata pensando agli anni del liceo?
Nel 2010, verso novembre – dicembre, smisi di andare a scuola per un paio di mesi. Avevo ansia e paura. E piangevo tanto.
Mi ricordo tutto. Mi ricordo quei momenti in cui la paura era talmente tanta che avevo i brividi alle gengive e ai denti e mi dondolavo sul pavimento per assestarmi. I miei genitori non hanno saputo gestirmi. Sottovoce si consigliavano l’un l’altra di portarmi dallo psicologo, parola che a voce alta non si può dire perché automaticamente sei pazza se vai a farti curare il cervello.
Prima di smettere totalmente di presentarmi a scuola, ricordo i mal di stomaco, le lacrime e la debolezza che mi schiacciavano prima di ogni interrogazione davanti alla classe. Avevo paura di tutti. Dei professori, dei miei compagni e delle mie amiche.
Mamma e babbo volevano che andassi a scuola e così facevo, per poi arrivare davanti all’ingresso e andarmene con il fidanzatino dell’epoca. A casa però confessavo tutto a mamma e lei mi metteva una firma sul libretto delle assenze.
Poi ho smesso del tutto. Stavo chiusa in camera mia. Provavo a studiare. Mi facevo la scaletta nella mia testa. Appena torno a scuola mi faccio interrogare a storia, poi a chimica che mi fa schifo, poi greco. Una cosa per volta posso farcela, anche da sola.
Non ho mai chiesto aiuto apertamente perché ero convinta di potercela fare da sola e così è stato. Forse ho avuto fortuna. Forse si è accesa la parte razionale del mio cervello. E, senza forse, ho cominciato a ripetermi che prima viene la mia salute, poi i voti a scuola.
Una mattina sono tornata in classe e sono scoppiata davanti ai miei compagni. Il giorno prima avevo chiesto a Dile e Marghe di reggermi il gioco. “Io oggi non vengo. Dite che sto male per piacere.”
Forse Dile e Marghe avevano capito che non stavo bene, o forse no. Mi hanno detto più volte che stavo facendo una cavolata, che dovevo affrontare la cosa e che soprattutto dovevo entrare a scuola.
Il giorno dopo, in classe, il putiferio. Io urlo contro Diletta e Marghe. Dico che sono delle stronze, che non mi vogliono bene e che ho bisogno di aiuto. Forse lo ammetto, ed è la prima ed ultima volta.
In quel momento mi sono sentita una merda. Sono scappata in bagno e parte dei miei compagni hanno assistito ad una scena impietosa.
Negli anni con Dile e Marghe ne abbiamo riparlato. Mi sono scusata e ho anche scusato loro. Avevamo 15-16 anni, come potevo pretendere che le mie amiche mi accudissero?
Poi c’è stato un altro stop e per altri giorni sono stata a casa. Ho tenuto un diario che poi ho gettato via perché faceva troppo male. Solo il fidanzatino dell’epoca lo lesse. C’era descritto l’odio nei confronti delle altre persone, in delle pagine piene zeppe di inchiostro nero. Prendevo la penna nera e stringendola fortissimo distruggevo il diario.
Una mattina ho desiderato morire. Non riuscivo più. Avevo un peso sul cuore e sui polmoni. Troppa ansia. Troppa paura.
Non so che cosa sia successo poi. Ho ricominciato ad uscire, ad andare a scuola. A dividere il resto dell’anno scolastico in pacchettini. Dovevo affrontarlo da sola ma a modo mio. Ho scelto le materie che più mi piacevano, tralasciando ovviamente chimica che poi mi sono ritrovata a settembre. Ricordo la mattina nell’aula di informatica in cui toccava a me essere interrogata a chimica. Il professore mi chiamò e io risposi di no. Ambra ti prendi il debito a settembre lo sai? Sì, va bene così.
La pagella alla fine dell’anno faceva piangere ma io stavo un po’ meglio e questo bastava. Non mi importava di quello che pensavano i miei genitori. La scuola era affare mio.
Non so come abbia fatto ma dopo quel no al professore di chimica mi sono sentita più leggera. Ho iniziato a dare il giusto peso ai voti scolastici, dicendomi che il voto in una materia giudica quanto hai studiato non che tipo di persona sei. E con questo mantra sono andata avanti.
Ripensandoci adesso dopo dieci anni rivedo i miei tentativi di richiesta di aiuto. Una volta nell’intervallo provai a confessare qualcosa alla professoressa di greco. Le dissi che mi sentivo in competizione con le mie amiche, che non potevo farcela e che stavo male. Lei mi rispose con una smorfia, come a dire “e io che ci devo fare? tanto poi ti passa stai tranquilla”.
Non ho mai parlato con una psicologa. Quegli “attacchi d’ansia” così forti – che metto tra virgolette perché non so se fossero davvero attacchi d’ansia – non li ho più avuti. Quando ho un problema lo prendo e lo faccio a pezzettini e piano piano lo supero.
La paura di non farcela, di non essere all’altezza, c’è sempre ma poi ragiono e bene o male ne esco, con qualche piantino e risata isterica ma ne esco.
Ci sono ancora delle cose che mi mettono ansia, più o meno leggera. Guidare la macchina, stare in mezzo a persone che non conosco, per esempio. A volte riesco ad affrontarla: se guido metto la musica, mi dico che dopo quella via di case sono già più vicina alla meta; se però sono con persone che non conosco mi isolo e aspetto che qualcuno mi faccia cenno di avvicinarmi. Ma appena mi avvicino sono cazzi vostri eheh poi non mi cheto più.
Credo che dovrò lavorare ancora su me stessa e sciogliere quei famosi nodi di cui ho già scritto. Dovrei scavare anche più a fondo ma ho paura di quello che potrei trovare.
Per quanto riguarda il sogno lascio a voi l’interpretazione. Poi io gioco i numeri.